Anthologìa
La parola Antologia deriva dal greco Anthologìa (ánthos ‘fiore’ e légō ‘scelgo’) e significa ‘scelta di fiori’. Nel 2015 Silvia Margaria scelse alcuni fiori recisi da portare al Cimitero Monumentale e al Socrem di Torino, per commemorare la vita di cinque donne illustri torinesi: fiordalisi per Isa Bluette, mimosa per Adelaide Aglietta, lavanda per Emilia Mariani, fiori di campo per Giorgina Levi, ortiche per Amalia Guglielminetti. Ornare di fiori le tombe è un rito con significati profondi, è un gesto che rappresenta un dono sentito e simbolico, evidente metafora dello sforzo di sopravvivere all’oblio. Il fiore è simbolo di bellezza, perfezione e purezza, ma nello stesso tempo è metafora della fragilità e brevità della vita.
Una tomba illustre, come dice la parola stessa, appartiene ad un personaggio che gode di un’ampia e meritata fama, per eccezionali qualità o azioni significative. Merita cioè di essere ricordato in modo particolare dalla collettività. L’ambivalenza tra illustre e anonimo, tra ricordo e dimenticanza, tra valore e scarto è ciò che costantemente richiama l’attenzione e interessa la ricerca di Margaria.
La scelta delle cinque donne illustri, derivante da uno studio generale delle tombe celebri femminili con l’intenzione di focalizzare la ricerca sulla lotta per l’emancipazione femminile, si basa su una sensibilità soggettiva, su personali assonanze e accordi.
Ciascun fiore scelto ha un particolare significato in riferimento alla persona alla quale è collegato. Il nome di Emilia Mariani è legato alle battaglie per l’emancipazione femminile, alle lotte per il miglioramento delle condizioni lavorative delle maestre e per la parità tra insegnanti uomini e donne. Sulla sua lapide si legge: Visse per la gioventù, istruendo ed educando al bene. Fu semplice, buona, affettuosa. Amò i fiori, predilesse i bimbi. Il devoto omaggio di questi ti sarà continuato dalla tua famiglia, che solamente ora trova conforto nell’averti presso di sé nella tua città natale che tanto amasti. E fiori, fiori e fiori olezzeranno sempre presso le tue ceneri benedette. La lavanda è un fiore che dura a lungo, con un profumo intenso e costante.
A seguito dei provvedimenti antisemiti del 1939, Giorgina Levi emigra in Bolivia, insieme al marito Enzo Arian. Qui ha saputo adattarsi alle situazioni più difficili, proprio come i fiori di campo che crescono con tenacia e ostinazione. Il suo impegno e l’apertura verso altre identità e realtà, la resistenza a ingiustizie e soprusi, l’amore per la giustizia e l’uguaglianza sociale, sono un esempio di attivismo e rivoluzione. Nel testo per una lezione ai suoi studenti pubblicato in appendice al volume “Tutto un secolo”, si legge: “Pregiudizi e calunnie secolari sono duri a morire e ricompaiono periodicamente per sostenere posizioni nazionalistiche estremistiche e interessi politici ed economici”.
Teresa Ferrero, in arte Isa Bluette, è stata attrice teatrale, cantante e soubrette del teatro di rivista degli anni venti e trenta del novecento. Donna autonoma, padrona della propria femminilità e dei propri sentimenti, aveva scelto come nome d’arte proprio quello del fiordaliso, un fiore con un colore brillante e vistoso, che cresce libero in pieno sole.
La poetessa e giornalista Amalia Guglielminetti era famosa, economicamente indipendente, colta, amata dai critici più consolidati dell’epoca e rappresentava tutto ciò che le femministe del suo tempo rivendicavano come diritti inalienabili delle donne. Irrequieta ed appassionata, incline ad infrangere le regole del perbenismo borghese che relegava la donna negli angoli bui dei salotti letterari dell’epoca, disse di sé: “Chi mi conosce sa ch’io sono scontrosa come un’ortica e che le mie temerità non sono fatte che di parole scritte”. Il suo stile di vita e la sua attività letteraria diedero impulso allo sforzo di emancipazione in atto ai suoi tempi.
Adelaide Aglietta, con passione e tenacia, si è battuta per anni contro una legislazione arretrata, impegnandosi prima per la difesa della legge sul divorzio, poi per la legalizzazione dell’aborto. Riservata, schiva, quasi timida, era una donna per la quale il femminismo era passione e ragione di vita. Nel Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse si legge: “Trecento persone armate di nonviolenza, di fiori, di serenità riescono indisturbate a occupare il “cuore giudiziario” della città. (…) Quando tocca a me entro nell’aula, i compagni mi salutano, mi accorgo di avere ancora dei fiori in mano”. Era il 6 marzo 1978.
Alla commemorazione con i fiori al cimitero, è seguito un lungo periodo di documentazione quotidiana, attraverso una serie di diapositive, dell’appassimento dei fiori sulle tombe. Nel 2018 prende forma Anthologìa, lavoro composto da 38 fotografie derivate dalle centinaia scattate nel 2015. Ciascuna fotografia è la sovrapposizione di due diapositive: una diapositiva del primo giorno di documentazione è sovrapposta a una diapositiva dell’ultimo giorno, una diapositiva del secondo giorno è sovrapposta a una diapositiva del penultimo giorno, e così via fino ad un incontro temporale nel giorno che sta a metà, visibile nell’ultima sovrapposizione della serie nella quale si sommano due diapositive scattate lo stesso giorno. Il rapporto tra le due immagini sovrapposte, la convivenza e la compenetrazione di forme e colori, di realtà e tempi differenti, è possibile solo cercando di mantenere un equilibrio: il risultato finale è una sovrapposizione ricercata del tempo passato, della memoria di due realtà temporali che convivono diventando immagine evocatrice. Essa nasconde le originarie differenze sotto la sua espressione unitaria.
Le stampe dalle diapositive sovrapposte vanno a formare 5 serie, una per ciascun fiore, sulle quali l’artista è intervenuta con una soluzione di acqua e clorofilla, il pigmento necessario per attivare la fotosintesi e innescare quindi la produzione di ossigeno.
Ciò che queste donne hanno lasciato è ricco, forte, radicato. Conoscere il passato, considerare lo sforzo, rispettare le vite che fanno resistenza, ammettere il cambiamento, conservare la memoria e commemorare il ricordo, fa si che ci sia evoluzione, crescita e vita.
38 stampe Fine Art su carta baritata lucida, colore; acqua e clorofilla.
24×36 cm.
2015-2019
Selected projects
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.