The No Carousel
Uno dei primi insegnamenti che vengono dati a scuola è la consapevolezza di avere memoria: la scoperta della continuità tra presente e passato riesce grazie all’acquisizione di coordinate spazio-temporali necessarie per capire la narrazione e la ricostruzione di eventi. Cogliere il tempo nei suoi momenti di successione, durata, contemporaneità e ciclicità è un traguardo importante nella crescita umana; allo stesso modo riconoscere la complessità della memoria, nel cui processo vive anche l’oblio, comporta capire che la conservazione è il risultato di una selezione, di una scelta.
Dal 2010 ho passato tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole. L’esperienza in archivio mi ha imposto rigorosamente un metodo di attesa, decelerazione e scoperta, un atteggiamento di cura consapevole del rapporto tra cancellazione e conservazione.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la mia attuale ricerca artistica. Prendo spesso ispirazione dal modo lento di lavorare le pellicole in archivio, dalla maniera di guardare i fotogrammi prestando attenzione alle loro ferite. Questi aspetti sono diventati un’ossessione, tanto da spingermi a costituire una collezione composta da materiale fotografico analogico vernacolare considerato uno scarto perché abbandonato o semplicemente non voluto. “The No Carousel” si compone principalmente di diapositive che trovo nei mercatini dell’usato o per strada; l’abbandono e il loro possibile danneggiamento rappresentano la storia di queste immagini che diventano per me uno spazio fertile. Sono immagini che hanno la potenza e la seduzione degli oggetti preziosi, di quei tesori da guardare da vicino, con attenzione e desiderio. Scrutandole con cura vado alla ricerca di chissà quale dettaglio e particolare, di un indizio forse che possa continuare la storia che ho immaginato guardando la scena per la prima volta, una storia che mi trovo a spiare in una sorta di diario di immagini. Sorgono tante domande durante la visione di queste misteriose fotografie, quasi tutte senza risposta. Ma come scriveva Mary Oliver: “There are so many stories / more beautiful than answers” (“Snake” in American Primitive, 1983).
“The No Carousel” è dedicato a ciò che fa resistenza, ciò che sedimenta malgrado distruzioni e trasformazioni; ma, nonostante la mia ossessione per ciò che riesce a mantenersi, sono consapevole che i tempi della vita determinano la scelta di cosa conservare e cosa buttare.
Allo stesso modo in biblioteconomia si parla di scarto o revisione, désherbage o weeding, quando si vuole attuare l'operazione che consiste nel selezionare in una collezione i documenti inutili. L’archivista è chiamato a decidere quali documenti hanno e avranno un valore e quali no. Nel momento della scelta - e dello scarto forse - l’archivista è solo, e segue inevitabilmente dei criteri soggettivi. La selezione segue la valutazione, ed è il momento in cui si decide la destinazione finale di ogni tipologia documentaria. È un’operazione complessa che deve tener ben presente il significato della responsabilità e il rapporto con la prudenza e il controllo.
Le diapositive di “The No Carousel” raccontano vulnerabilità, smarrimenti e derive, e sono parte del mio archivio personale perché sono la conseguenza di una scelta compiuta da qualcuno che ha detto no.
È un archivio fragile, proprio perché la sua conservazione è continuamente tesa sul limite tra negazione e affermazione, tra silenzio e narrazione, tra tenere nascosto e mostrare. Resta il fatto che siano immagini davvero seducenti.
Archivio personale di diapositive vernacolari.
The No Carousel
Archivio personale di diapositive vernacolari.
Uno dei primi insegnamenti che vengono dati a scuola è la consapevolezza di avere memoria: la scoperta della continuità tra presente e passato riesce grazie all’acquisizione di coordinate spazio-temporali necessarie per capire la narrazione e la ricostruzione di eventi. Cogliere il tempo nei suoi momenti di successione, durata, contemporaneità e ciclicità è un traguardo importante nella crescita umana; allo stesso modo riconoscere la complessità della memoria, nel cui processo vive anche l’oblio, comporta capire che la conservazione è il risultato di una selezione, di una scelta.
Dal 2010 ho passato tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole. L’esperienza in archivio mi ha imposto rigorosamente un metodo di attesa, decelerazione e scoperta, un atteggiamento di cura consapevole del rapporto tra cancellazione e conservazione.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la mia attuale ricerca artistica. Prendo spesso ispirazione dal modo lento di lavorare le pellicole in archivio, dal modo di guardare i fotogrammi prestando attenzione alle loro ferite. Questi aspetti sono diventati un’ossessione, tanto da spingermi a costituire una collezione composta da materiale fotografico analogico vernacolare considerato uno scarto perché abbandonato o semplicemente non voluto. “The No Carousel” si compone principalmente di diapositive che trovo nei mercatini dell’usato o per strada; l’abbandono e il loro possibile danneggiamento rappresentano la storia di queste immagini che diventano per me uno spazio fertile. Sono immagini che hanno la potenza e la seduzione degli oggetti preziosi, di quei tesori da guardare da vicino, con attenzione e desiderio. Scrutandole con cura vado alla ricerca di chissà quale dettaglio e particolare, di un indizio forse che possa continuare la storia che ho immaginato guardando la scena per la prima volta, una storia che mi trovo a spiare in una sorta di diario di immagini. Sorgono tante domande durante la visione di queste misteriose fotografie, quasi tutte senza risposta. Ma come scriveva Mary Oliver: “There are so many stories / more beautiful than answers” (“Snake” in American Primitive, 1983).
“The No Carousel” è dedicato a ciò che fa resistenza, ciò che sedimenta malgrado distruzioni e trasformazioni; ma, nonostante la mia ossessione per ciò che riesce a mantenersi, sono consapevole che i tempi della vita determinano la scelta di cosa conservare e cosa buttare.
Allo stesso modo in biblioteconomia si parla di scarto o revisione, désherbage o weeding, quando si vuole attuare l'operazione che consiste nel selezionare in una collezione i documenti inutili. L’archivista è chiamato a decidere quali documenti hanno e avranno un valore e quali no. Nel momento della scelta - e dello scarto forse - l’archivista è solo, e segue inevitabilmente dei criteri soggettivi. La selezione segue la valutazione, ed è il momento in cui si decide la destinazione finale di ogni tipologia documentaria. È un’operazione complessa che deve tener ben presente il significato della responsabilità e il rapporto con la prudenza e il controllo.
Le diapositive di “The No Carousel” raccontano vulnerabilità, smarrimenti e derive, e sono parte del mio archivio personale perché sono la conseguenza di una scelta compiuta da qualcuno che ha detto no.
È un archivio fragile, proprio perché la sua conservazione è continuamente tesa sul limite tra negazione e affermazione, tra silenzio e narrazione, tra tenere nascosto e mostrare.
Resta il fatto che siano immagini davvero seducenti.
Selected projects
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.