Bandite
Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa il fiero partigian,
sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi, al fin liberi siam!
Sventolando la rossa sua bandiera,
vittoriosi al fin liberi siam!
(dalla canzone partigiana Fischia il vento di Felice Cascione)
Il progetto Bandite è dedicato ad alcune partigiane del savonese - Clelia Corradini, Ines Negri, Franca Lanzone, Paola Garelli, Luigia Comotto e le Suore “Maria bambina” dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure - che sono testimonianza del ruolo fondamentale delle donne nella lotta di liberazione e sono simbolo delle tante martiri per la libertà.
Durante i riti di commemorazione dei caduti della Resistenza si eseguono, davanti al cippo che ricorda il sacrificio della partigiana o del partigiano, anche gli onori della bandiera: le bandiere in quell'occasione sono tante e diverse, e tutte vengono fatte sventolare con fermezza e trasporto.
Il progetto Bandite si compone di una serie di bandiere, una per ogni partigiana, create in modo da poter essere maneggiate da un gruppo di sbandieratori. Gli sbandieratori nacquero nel Trecento come "segnalatori" durante il periodo di guerra. La bandiera era simbolo dell'orgoglio cittadino, ma esprimeva anche un’esigenza strategica perché attraverso i diversi e molteplici colori, poteva essere un punto di riferimento e riconoscimento durante il combattimento. Il compito degli sbandieratori era infatti quello di comunicare con i reparti attraverso lanci e sventolii, indicando, secondo un codice ben preciso, le fasi salienti della battaglia. Gli sbandieratori dovevano essere fedeli, discreti ed ingegnosi, e se venivano catturati dai nemici dovevano custodire gelosamente i segnali del codice della danza, mantenendo il segreto fino alla morte. La lotta partigiana è nuda esperienza esistenziale animata da un’elementare spinta di riscatto umano che ha richiesto l’incondizionata e totale adesione di uomini e donne anche loro fedeli, discreti ed ingegnosi, che dovevano intendersi in silenzio e agire all’unisono, nascondendosi e nascondendo informazioni, persone, armi, a costo della vita.
Bandite si sviluppa nella forma di una performance messa in atto da sbandieratori professionisti che attraverso una coreografia studiata muovono e “attivano” le bandiere Bandite. Da sempre la bandiera è stata utilizzata per rappresentare un’ideologia, un credo, un’appartenenza. La bandiera è simbolo di valori e la danza messa in atto dagli sbandieratori può diventare simbolicamente un nuovo processo di valorizzazione di storie nella Storia.
In questo progetto la forma e i contenuti dell'opera, oltre ad avere a che fare con la memoria e il territorio, indagano il parallelismo e l'accostamento tra l’elemento naturale, i fiori, e la complessità esistenziale di alcune biografie: su ciascuna bandiera è rappresentato un fiore della flora ligure che appartiene ad una specie minacciata - la Campanula del savonese, la Scilla della riviera, l’Erica cinerea, la Genziana ligure, l’Orchidea patente, il Tulipano dei monti - ed è ricamata una parola scelta da quelle incise sui cippi commemorativi delle partigiane savonesi alle quali le bandiere sono dedicate - ‘coraggio', ‘caddero', ‘resistenza’, ‘libertà', ‘medita', ‘cura'.
Nella sua Teoria del partigiano Carl Schmitt individua come fondamentale caratteristica della lotta partigiana il forte legame tra chi combatte e il proprio territorio. Il fortissimo e primario rapporto con la propria terra per i partigiani fa sì che il paesaggio non sia considerato solo come cornice o sfondo alle vicende, ma un elemento protagonista della Resistenza. «La Resistenza rappresentò la fusione fra paesaggio e persone», scrive Calvino nella prefazione del ’64 a Il sentiero dei nidi di ragno.
I fiori raffigurati sulle bandiere Bandite, che vogliono essere l’immagine di questo rapporto, sono, nella loro precaria esistenza di specie minacciate, un esempio di resistenza; la tenacia e al tempo stesso la fragilità dei fiori hanno valenza come iconicità: sono metafora stessa della vita, dell'alternarsi delle stagioni, della nascita e della morte, ma rimandano anche alla capacità della natura di mettere in atto continui processi di rinascita e trasformazione.
6 bandiere per sbandieratori, ricami e applicazioni di stampe su stoffa, 130x130 cm.
2024
ph. Alessio Barchitta / Francesca Cirilli
Il termine ‘bandito’, dal quale prende corpo il titolo dell’opera, ha la stessa radice etimologica di ‘bandiera’, perché entrambi i termini derivano dalla parola ‘bando’, qui con significato di mostrare, apparire, divulgare. I bandi, avvisi di interesse pubblico che devono essere resi noti a tutti, rappresentano anche l’intimazione di una condanna, proibiscono, escludono, sono l’espressione con cui si esorta ad accantonare, lasciare da parte qualcosa.
Bandito significa quindi ‘messo al bando’, escluso, ma secondo l'etimologia di bando concorre qui anche una doppia valenza, quella di qualcosa che è palese, manifesto, ben visibile e che si mostra, come una bandiera.
Bandite sta allora alle partigiane come alle bandiere e ai fiori; il termine ha quindi un doppio significato che somma due opposti, nascosto e manifesto. Il contributo delle partigiane è stato per troppo tempo ai margini, nascosto; ci sono voluti molti anni prima che si cominciasse a parlare della Resistenza delle donne, che si riuscisse a parlare della loro scelta di combattere nella guerra partigiana come di una consapevolezza di sé e del proprio valore, che le partigiane riuscissero a raccontare le memorie che loro stesse avevano bandito perché “tante vite silenziose di persone che durante la Resistenza avevano fatto magari cose importanti all’indomani della Liberazione hanno ripreso la loro vita di prima, senza rivendicare alcun ruolo speciale, senza far parte della ufficialità commemorativa, senza più parlarne con nessuno”. (Lo scritto fu pubblicato su «La Repubblica» del 23 aprile 1985, nell'inserto «25 aprile 1945. Quarant'anni dopo». Ora in Calvino, Saggi, op. cit., II, pp. 2912-2919).
Evento performativo con la partecipazione degli sbandieratori e delle sbandieratrici del Comitato Palio Castell'Alfero (AT). 20 aprile 2024, in occasione dei 50 anni del Monumento alla Resistenza di Agenore Fabbri in Piazza Martiri della Libertà a Savona per il Festival Diffuso Connexxion (a cura di Livia Savorelli).
ph. Natascia Giulivi
Selected projects
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.