Ghost Track (Lozio)
Ghost Track: contenuto di un album discografico, la cui esistenza non è riportata nella lista delle tracce sulla copertina o comunque all’interno delle informazioni riportate nella pubblicazione.
Ghost Track (Lozio) è il lavoro di fine residenza di falía* Air 2023, progetto di residenza artistica in Val Camonica.
La dualità tra la concezione di esistenza e quella di non-esistenza è il tema dell’opera, aspetto essenziale se si guarda alla società contemporanea: tutto è votato alla dimostrazione esplicita della propria presenza nel mondo, non lasciando più spazio al celato e al non manifesto, sfumature però fondamentali per dare significato alla nostra esistenza. L’opera, infatti, costituisce una sorta raccolta di oggetti e visioni nel tentativo di dare nuovamente valore al non visto e a tutto ciò che sembra trascurabile, perché nascosto.
La riflessione parte perciò dalla traccia fantasma e dalla dimensione di sorpresa, stupore, perplessità e confusione che si innesca quando si scopre che il disco che si sta ascoltando va avanti nonostante risulti tecnicamente finito. In questo modo, si sottolinea la comunicazione intima e quasi segreta che si instaura tra un musicista e il suo paziente ascoltatore. Perché effettivamente questa traccia nascosta può essere ascoltata non da chi non vive l’ascolto in maniera veloce e distratta, ma da chi ha invece l’audacia di attendere oltre quegli interminabili - e per certi versi anche inascoltabili - secondi di silenzio tra le tracce espresse e quella nascosta.
E così come la ghost track è un componimento musicale che apparentemente non è presente sulla carta, in senso lato, anche Lozio è un paese che non esiste. Infatti, se le frazioni di Villa, Sucinva, Laveno e Sommaprada hanno ubicazione e concretezza nella realtà, Lozio è solamente un nome senza una concreta tangibilità e si può quindi considerare come una vera e propria ghost track, come la quinta traccia nascosta - eppure così evidente - della valle circostante.
Questa dualità tra manifesto e celato ben si esplica anche nell’ambiente montano che caratterizza il paesaggio di Lozio. La montagna, infatti, incarna fisicamente, l’essenza del nascosto, dell’atto di vedere senza essere visti. Le selve, in particolare, con i loro abitanti al limite tra selvaggio e mostruoso, erano simbolo di tutto ciò che non si poteva pienamente padroneggiare e conoscere e per questo esorcizzate attraverso leggende e storie popolari. Ed è proprio da qui che nacque l’uomo selvatico, figura leggendaria diffusa su Alpi e Appennini, che in Valle Camonica trova il suo corrispondente nel personaggio del barbaluf, che popola i racconti locali. Si tratta sempre di una presenza liminare tra umanità e animalità non addomesticata: un uomo spesso gigantesco, che, nonostante le sue notevoli dimensioni, non si fa vedere, ricoperto di peli, con capelli e barba lunghi, vestito da foglie, corteccia d’albero o muschio o da pelli di animali, con un bastone utile per difendersi, procurarsi cibo e acquisire una maggiore stabilità durante i suoi spostamenti.
5 stampe fotografiche Fine Art su carta Hahnemuehle Photo Rag Book&Album 200 da negativo b/n infrarossi, resina naturale;
5 bastoni, spago agricolo
2024
Parrocchia Santi Pietro e Paolo (Villa, Lozio);
Uomo selvatico. Incisione di Giovannino De Grassi (XIV sec.), conservata presso la Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo;
particolare della timbratura su una stampa fotografica.
Proprio riprendendo questo elemento distintivo, una parte dell’opera è composta da un ‘bastone di bastoni’ del gigantesco uomo selvatico di Lozio, composto dalla somma di 5 bastoni, accompagnati da altrettante stampe fotografiche in formato panoramico e stampate da negativo b/n a infrarossi (Rollei Infrared) - una pellicola in grado di spingersi oltre il limite della luce visibile dall’occhio umano.
Ed è proprio su questo sottile confine tra assenza e presenza, precarietà e certezza, che il nostro sguardo dovrebbe soffermarsi, come negli scatti, sospesi tra visibile e invisibile. Perché è in questo spazio indefinito ed effimero che possiamo dare nuovo valore a ciò che è nascosto, riconoscendolo come elemento identitario per riuscire a costruirci una visione critica del presente, dove tutto ha la necessità inevitabile di essere manifesto, chiaro e incasellato in un preciso ordine logico e mentale.
Questo tentativo, simbolico, di far vedere ciò che solitamente non è visibile si concretizza anche nella scritta impressa con resina naturale sulle fotografie: la dicitura “LOZIO” deve essere cercata con pazienza e attenzione, perché si nasconde nel paesaggio fotografato, proprio come una ghost track. Ciò diventa, quindi, una sorta di invito alla lentezza e alla contemplazione per cogliere appieno la realtà fatta di presenza e assenza che si combinano e convivono sospese, sfuggenti. Ma nell’intento di delinearle, esse esigono una misura di attenzione diversa, che si struttura verso una nuova concezione e comprensione di ciò che non si vede.
(Alice Vangelisti, curatrice di falía* Air)
Selected projects
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.
Silvia Margaria passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
Quest’esperienza lavorativa è stata fondamentale per formare la sua attuale ricerca artistica: il modo attento di approcciarsi alla memoria e alla narrazione di identità del passato, e lo sforzo di portare lo sguardo oltre il proprio ordinario affaccendarsi, hanno attivato pratiche che formano un’attenzione più acuta verso le contingenze, le intermittenze del caso, le allusioni e i frammenti, la precarietà e la fragilità. La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente. La sua ricerca si imposta su un ritmo che fa della lentezza una metodologia d’azione, per far sì che l’attenzione possa manifestarsi in maniera aperta, misurata e responsabile.
“La frizione, tra una natura che si mostra e allo stesso tempo si ritira nella sua parte più essenziale, è il segreto stesso della natura, ovvero la ragione invisibile di cui il mondo è manifestazione. La poetica di Silvia Margaria si posiziona sulla soglia di questo punto: l’artista cerca la parte impercettibile della natura e indaga il suo processo di apparizione con un lavoro di osservazione mosso dal desiderio di capire il mistero della vita nel suo fluire. La sua ricerca, coerentemente con ciò che esamina, si configura nell’ambiguità degli opposti (per esempio: dispersione/concentrazione – nascondersi/palesarsi – cercare/trovare – uno/molteplice – solitudine/collettività – comunicazione/relazione – memoria/oblio – resistenza/cambiamento) relazionati, più che per reciprocità divergente, attraverso l’elaborazione della proprietà transitiva dei concetti, in modo che dal nesso dialogico si possa trarre lo stesso moto consequenziale che caratterizza il naturale divenire delle cose”.